di e con Filippo Michelangelo Ceredi
tutor Daria Deflorian nell’ambito della residenza Officina LachesiLAB
accompagnamento alla realizzazione Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani
accompagnamento alla coreografia Cinzia Delorenzi
assistenti al progetto Clara F. Crescini, Sara Gambini Rossano,
produzione Filippo Michelangelo Ceredi, Teatro delle Moire / Danae Festival – 2016
con il sostegno di ZONA K
Between Me and P. è un lavoro autobiografico che nasce dalla radicale esigenza di riappropriazione di una storia famigliare. Pietro sparì volontariamente nel 1987 all’età di 22 anni, senza lasciare tracce. Dopo venticinque anni Filippo, il fratello minore, ha avviato una lunga ricerca per tentare di avvicinarsi a lui e capire cosa lo portò alla decisione di sparire. La ricerca è un tentativo di portare luce su un’assenza silenziosa e pervasiva, e la sua elaborazione scenica è una possibilità di trasmettere una storia che parla profondamente al presente individuale e collettivo. Attraverso la penombra e la luce del videoproiettore, Between Me and P. crea un dialogo tra i materiali visivi e audio di un archivio, le elaborazioni video dell’artista e la sua presenza scenica. Filippo siede a una scrivania e opera sul computer, lo scanner e sui materiali contenuti in un faldone, mentre il pubblico segue la narrazione attraverso la videoproiezione che riproduce lo schermo del computer. Questa mostra testi che vengono digitati, finestre dell’archivio digitale, file audio e video che contengono fotografie scattate da Pietro, testimonianze rilasciate da amici e parenti, riprese e montaggi dell’artista in scena. Un ritratto di Pietro è tracciato passo dopo passo, emergono aspetti divergenti della storia e la decisione di lasciarsi tutto alle spalle diventa più leggibile. Nel corso della narrazione Filippo dispone sul pavimento oggetti provenienti dall’archivio: stampe d’epoca, libri e altri materiali sono usati per costruire lo spazio in cui proverà, come atto finale di un rituale, a riportare nel corpo ciò che a lungo è stato celato nella quotidianità.
NOTE DI REGIA, febbraio 2017
Non amo l’enfasi retorica.
Per la mia provenienza familiare, per la mia formazione e per il lavoro che ho sviluppato negli anni successivi all’università (fondamentale l’incontro con Marco Bechis), ho imparato a stare in guardia rispetto ai rischi dell’enfasi retorica nella comunicazione dei fatti e delle storie. L’enfasi retorica è un modo per cercare di dare importanza a certi aspetti della realtà, minimizzandone altri, quindi costituisce una manipolazione della realtà che molte volte ha dei risvolti ideologici che non condivido. Apprezzo molto di più la ricerca della verità, con tutto ciò che questo comporta di parziale, complesso, frammentario, casuale. L’ideologia è pericolosa perché, nel momento in cui diventa maggioranza, impedisce la ricerca della verità e la libertà degli individui e dei gruppi che non si conformano all’ideologia. Queste premesse hanno dato un taglio anti-ideologico alle mie ricerche e mi hanno fatto
rifiutare l’utilizzo dell’enfasi retorica nella narrazione. Questo ha trovato applicazione nei progetti documentari con Bechis – relativi soprattutto alle tragedie del ‘900 – in cui la libertà espressiva ha trovato un saldo alleato nella sobrietà stilistica. Dall’incontro con Bechis deriva anche la considerazione degli archivi come grande fonte
creativa non solo a livello di contenuto, ma anche a livello formale. La qualità dei documenti, i segni sulla carta, i toni delle stampe fotografiche, lo stato di conservazione materiale delle cose: tutte queste componenti estetiche mi hanno fatto apprezzare in maniera molto più approfondita il gusto di archiviare e di esporre i materiali d’archivio. La ricerca su mio fratello e l’esigenza di restituire al mondo questa storia, mi hanno messo nella condizione di cercare un linguaggio in cui queste componenti emergessero e allo stesso tempo fossero in stretta relazione con altre istanze. La prima era senza dubbio il riserbo, per cui sentivo di dover proteggere il nucleo di questa vicenda: non solo le informazioni private su Pietro, ma anche il modo in cui sono entrato in contatto con lui, attraverso un processo intimo. La seconda era la ritualità collegata alla mia ricerca e all’archiviazione dei materiali. Affrontare questa materia così densa è stato possibile solo attraverso una grande attenzione alla presenza delle condizioni materiali in cui la ricerca si stava sviluppando. Quindi ho trovato grande sostegno nell’allenamento fisico (anche attraverso il teatro-danza), nella qualità dello spazio domestico in cui operavo e nell’ordine dei materiali che andavo via via archiviando e sistemando. Sono queste condizioni di cura e ascolto che mi hanno dato una buona parte dell’energia di cui avevo bisogno per andare avanti e che ho trasferito nella
ritualità della performance. A livello più strettamente formale per me era importante che la storia potesse essere
compresa, dunque ho cercato di rispettare una linea narrativa, ma senza concedere ad essa più importanza del necessario. Ho cercato di trovare un equilibrio tra le parti, in modo da non creare un sovraccarico di input informativi a scapito di quelli più estetici – ad esempio mettendo una soluzione musicale dopo una testimonianza orale – e creando anche dei contrappunti ironici. Ironia che non è deliberata, ma che fa parte della storia in maniera integrale. Ho cercato nel complesso di non pretendere da questa occasione espressiva una completezza rispetto alla storia e alla ricerca, che sono effettivamente molto articolate. Ho preferito disporre delle tracce, tenendo fede all’essenzialità di certi contenuti, e lasciare per il resto lo spettatore libero di trovare i propri agganci personali in un orizzonte, più che nella specificità di una storia drammatica raccontata nei dettagli. E infine ho scelto di essere in scena Filippo e non un altro, tenendomi dentro i limiti di un contesto performativo e non rappresentativo. Perché ho sentito chiaramente che i materiali (e il modo in cui io li manovravo) parlavano da soli di una storia unica e al tempo stesso universale, senza bisogno di aggiungere un’elaborazione personale. Traendo le estreme conseguenze da questa considerazione, ho deciso di pulire la mia figura in scena da ogni
incrostazione teatrale e di essere semplicemente un operatore al servizio del dispiegamento della storia e dei materiali. Ho deciso in fondo di essere niente più di quello che faccio di solito per lavoro come assistente regista o assistente in teatro: stare al computer, disporre materiali in uno spazio per avere una visione, muovermi in un archivio digitale e mostrare cose relative a un tema. Questi passi indietro rispetto alla mia presenza in scena hanno davvero permesso di dare più rilievo alla storia e dall’altra parte di creare quella qualità che chiamerei “di penombra” che è strettamente connessa alla storia di Pietro e alla mia ricerca. L’unica eccezione a questo schema è costituita dalla parte di danza, che ha un valore liberatorio e che dà senso a tutto il percorso senza alterarne il contenuto. Per me è una conclusione – la possibilità di esprimere liberamente la mia corporeità – senza essere una negazione, perché la danza era proprio una delle componenti che rendevano forti la ricerca. Tutte queste componenti, elaborate nel corso della produzione grazie anche ai miei mentori e alle prove aperte, credo abbiano permesso di mostrare dialogo tra la presenza e l’assenza che è la chiave del rapporto tra me e Pietro.
ASCOLI PICENO_TEATRO DEI FILARMONICI sabato 17 ottobre ore 16
Biglietto singolo euro 8 in vendita QUI
Abbonamento al Festival 16/17/18 ottobre euro 50 in vendita dal 24 settembre presso la biglietteria di Piazza del Popolo 0736298770
Abbinamento al Festival 17 e 18 ottobre euro 35 in vendita dal 24 settembre presso la biglietteria di Piazza del Popolo 0736298770